Alanis Morissette
“Jagged little pill”, 1995 (Maverick/Reprise)
Prog-Rock, alt-rock
di Martina Vetrugno
Il 1995 rappresenta una sorta di spartiacque dove le luci della ribalta sono tutte puntate sull’esplosione di britpop e post-grunge nel panorama mainstream: Kurt Cobain è morto da un anno e con lui sta ormai tramontando anche la scena di Seattle. Ciò che resta di quel furore primigenio finisce per mescolarsi al linguaggio pop-rock commerciale, con risultati spesso aspramente dibattuti dalla critica e in parte accantonati quasi subito, ma non un taccuino segreto che continua a ispirare le nuove generazioni, “Jagged Little Pill”.
Ritratto emozionale di una giovanissima Alanis Morissette, è il terzo album in carriera e primo a essere distribuito a livello mondiale per la cantautrice canadese, nel quale ogni brano rappresenta una sfida diretta, priva di ogni filtro o maschera. Alla base della rabbia, della ribellione, e soprattutto della maturità e delle parole disarmanti pronunciate dall’artista, vi sono una serie di esperienze dolorose, a cominciare da un’infanzia rigida e influenzata dai severi dettami cattolici seguiti dai genitori, da molestie e violenze subite durante l’adolescenza, dettaglio rivelato e approfondito solo di recente, oltre a periodi di anoressia nervosa e bulimia, emersi durante il suo debutto nel mondo discografico, come idolo teen-pop e dance. La voglia di svincolarsi da quell’etichetta e soprattutto dall’ambiente fintamente patinato che la circonda, per raccontare la sua verità con i toni che desidera, si concretizza dopo il diploma e prende il via grazie alla collaborazione con il produttore Glen Ballard, che contrasta l’aggressività delle liriche di Alanis con una sensibilità pop, al fine di indorare quella piccola pillola amara dai bordi frastagliati, difficile da mandare giù.
L’incontro tra Morissette e Ballard avviene nel 1994, grazie all’intervento dell’editore della Mca, precedente etichetta dell’artista, sbalordito dal talento e dalle idee chiare della cantautrice. Tra i due nasce subito un’ottima intesa professionale e creativa, tanto da riuscire a scrivere il testo e abbozzare la demo di ogni canzone, a ritmi di dodici o più ore di lavoro filate, in una sorta di flusso di coscienza e continua sperimentazione in studio.
Ad opera praticamente ultimata, trovare una casa discografica disponibile si rivela l’impresa più ardua: soltanto la Maverick, etichetta fondata da Madonna pochi anni prima, decide di assumersi dei rischi e pubblicarla. A spiazzare fin da subito è il confronto a viso aperto di “All I Really Want”, inaugurata dal ronzio vivace dell’armonica suonata da Alanis e l’impulsività di un coinvolgente guitar riff e una groovebox. Il titolo strizza l’occhio all’apertura di “Blue”, “All I Want”, della conterranea Joni Mitchell, verso cui l’artista mostra una pressoché totale devozione e dalla quale riceverà tuttavia in seguito un trattamento ben poco lusinghiero.
Emerge fin da subito il bisogno della cantautrice canadese di sbattere in faccia al mondo ciò che prova, sfogando la propria frustrazione contro un partner indolente e superficiale, spaventato dal silenzio e dalle responsabilità reali. Ma quello che potrebbe sembrare un asso calato e bruciato in partenza non è che l’anticamera del brano più forte in assoluto, “You Oughta Know”. Un destro ben assestato in pieno volto a un uomo, colpevole di averla usata e gettata via, negando ogni coinvolgimento con lei dinanzi agli altri, e immagine cruda (e onesta) del modo di vivere la sessualità dal punto di vista femminile, fluita dal subconscio dell’artista e musicata da una jam di Flea e Dave Navarro, insieme a Benmont Tench all’organo e Matt Laug alla batteria.
Chiariti i propri intenti, con un balzo ci riporta indietro a un’infanzia minata da una competitività malsana con la ballata “Perfect”, nella quale un genitore ripete al proprio figlio che per poter avere il suo affetto deve essere il migliore di tutti, incalzando continui raffronti con gli altri bambini e provocandogli sensazioni negative, il cui peso sempre più insostenibile è evidenziato dal crescendo e dalla voce rotta di Alanis.
La vertigine costante di sentirsi al limite e il tentativo di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno si intrecciano nei paradossi e nelle figure retoriche di “Hand In My Pocket”, nella quale si nasconde un altro tabù. Tra i ritmi placidi sfornati dalla drum machine spicca un riferimento ai disordini alimentari, piaga in forte crescita negli anni Novanta con la diffusione di canoni estetici irraggiungibili da parte dei mass media, e alla sensazione di trovarsi in bilico, tentando di controllare il proprio corpo, pur sapendo di essere malata.
Prosegue sulla stessa linea, puntando all’origine del problema, l’intensa e graffiante “Right Through You”, invettiva grungy riservata a discografici e affini che si prendono gioco delle giovani artiste, ottenendo favori in cambio di un presunto supporto alla carriera, e in particolare a qualcuno della Mca con cui Morissette avrebbe avuto una relazione a quattordici anni. Non vi è un’accusa schietta di molestie, sebbene in Canada a un adulto non sia consentito di avere rapporti con una persona così giovane, e quindi non si possa parlare di consenso reale, ma una vera e propria “radiografia” del soggetto, dal quale la cantautrice è riuscita a prendere le distanze una volta cresciuta.
Ritorna sul tema di un’educazione forzata, stavolta dal punto di vista religioso, “Forgiven”, una confessione nella quale l’artista parla dei sensi di colpa provati per il fatto di volersi godere la vita e aver cura di sé, squarciando il velo dell’ipocrisia che da sempre ammanta il mondo cattolico.
L’amore e la sofferenza sono i principali maestri di vita (e spesso si presentano direttamente in coppia) e a ribadirlo è la fondamentale, riflessiva ed equilibrata “You Learn”, una medicina per l’anima tra quasi tutti i drammi presenti su disco, nata dopo una rapina ai danni della cantante a Los Angeles, come cura per l’ansia da cui era già afflitta e che per colpa di quell’ulteriore episodio era ormai fuori controllo. Tale rassicurazione dà il via a un percorso di crescita personale, che prosegue con l’armonica giocosa di “Head Over Feet” e la struggente ballad “Mary Jane”. La prima traccia parla di un rapporto inizialmente complesso tra due “amici con benefici”, che si trasforma in qualcosa di bello, aiutando la protagonista a vincere la diffidenza, la difficoltà nell’esprimere i propri sentimenti, e la dipendenza affettiva, grazie alla devozione e alla gentilezza dell’altra persona; la seconda, invece, è un inno all’empatia, capacità nota a pochissimi, dimostrata nei confronti di un’amica. Entrambe, più o meno indirettamente, suonano come un invito a proteggere i più vulnerabili, a chiedere una volta in più “come stai?”, e non per perdersi in inutili convenevoli, ma attendendo una risposta sincera, senza mettere l’interlocutore in condizione di censurare le proprie lacrime e mentire.
Ironia o sfortuna? Attorno a questa domanda ruota l’eterno dibattito riguardante il grande successo della più catchy “Ironic”, le cui liriche agrodolci hanno attirato accuse di malapropismo da ogni parte, sebbene licenze poetiche e di significato nei testi cantautorali siano all’ordine del giorno e il concetto stesso di ironia possa essere sfuggevole nel quotidiano, il che può essere riassunto in una semplice risposta piccata data dalla stessa cantautrice in un’intervista: “È ironico che una canzone chiamata ‘Ironic’ non sia piena di ironie”.
Il rush finale è incentrato sulla voglia di libertà ed emancipazione con “Not The Doctor”, presa di coscienza caratterizzata da un tocco country, tentando inoltre di scuotere dal torpore e dall’apatia qualcuno in “Wake Up”, collegamento diretto alla traccia d’apertura. La conclusione del percorso è affidata a un’altra versione di “You Oughta Know (Jimmy The Saint Blend)”, contenente la ghost track cantata a cappella “Your House”, nella quale l’artista mostra tutta la sua vulnerabilità, solitamente celata dalla rabbia e dagli alti e bassi repentini illustrati nei brani precedenti.
Ancora oggi fin troppo sottovalutato, nonostante sia uno dei dischi più venduti di tutti i tempi, sia diventato un musical e abbia avuto un notevole impatto sulla cultura cantautorale al femminile (ma non solo) dal Duemila in poi, “Jagged Little Pill” ha lasciato una lunga eredità musicale. Essa può essere ritrovata in un ampio ventaglio di generi tra pop, rock, emo e folk, a partire da Tracy Bonham, Britney Spears, Avril Lavigne, Anastacia, Hayley Williams, fino alle attuali Jade Bird, Phoebe Bridgers, Olivia Rodrigo, Taylor Swift, Halsey, ma anche nel cuore di chi l’ha ascoltato e che tra le righe di quel prezioso diario, estremamente sincero, pieno di contraddizioni e senza tempo, ha trovato qualcosa che ha potuto fare suo per sempre, come il conforto e l’abbraccio di una sorella più grande.
https://www.ondarock.it/pietremiliari/alanismorissette-jaggedlittlepill.htm