Beta Band
“The three E.P.’s”, 1998 (Regal / Because)
Indie-folk, alt-rock, trip-hop
di Fabio Guastalla
Esistono sicuramente molti modi per entrare a fare parte della cultura popolare, ma converrete che uno dei più rapidi ed efficaci consiste nell’essere citati all’interno di un film, ancora meglio se di produzione hollywoodiana. Il giorno prima sei una sorta di culto per un pubblico relativamente ristretto, quello dopo scopri di essere parte integrante della pellicola che a cavallo tra i due millenni racconta – anche – che cosa voglia dire essere appassionati di musica. In molti, inutile negarlo, abbiamo sentito pronunciare per la prima volta il nome della Beta Band all’interno di “Alta Fedeltà”, il film che si ispira all’omonimo romanzo di Nick Hornby (qui anche sceneggiatore). Quando Rob Gordon, il proprietario del negozio di dischi Championship Vinyl impersonato da John Cusak, in una celebre scena fa partire le prime note di “Dry The Rain”, pezzo di apertura dei “The Three E.P.s” a beneficio della clientela presente, si assiste a uno di quei rari momenti in cui qualcosa di immeritatamente piccolo diventa grande sotto i nostri occhi.
A posteriori, sapendo come sarebbe finita l’avventura dei The Beta Band, riconosciamo che quell’endorsement, per quanto arrivato quasi in diretta, era già fuori tempo massimo rispetto alla breve e auto-distruttiva parabola del gruppo. Correva il 2000 quando il film di “Alta Fedeltà” raggiungeva le sale cinematografiche, e all’epoca gli scozzesi avevano già in qualche modo perso il bandolo di una matassa che, a dire la verità, era sempre stata alquanto aggrovigliata. Il periodo d’oro della formazione nata nel 1996 a St. Andrews, ben presto trasferitasi a Edimburgo e infine giunta a Londra in cerca di più solide fortune, è tutto racchiuso nel triennio magico che va dal 1997 – anno di uscita del primo dei tre brevi lavori che verranno poi raccolti dall’etichetta indipendente Regal nel mitologico “The Three E.P.’s” – al 1999, l’anno nel quale gruppi come Radiohead e Oasis rilasceranno dichiarazioni del tipo: “Dovremmo fare un album stile Beta Band”. E forse, a dirla tutta, come endorsement era anche migliore di quello che sarebbe arrivato l’anno dopo in forme e modalità diverse.
Il punto è che The Beta Band – al secolo Steve Mason, Gordon Anderson, Robin Jones, John Maclean e Steve Duffield – ambivano davvero al successo e alla notorietà, come ogni gruppo che si rispetti, ma non sapevano minimamente come ottenere tutto ciò. Per trovare le prove di questo assunto bisogna tornare ancora una volta a “The Three E.P.s” che, come da titolo, raccoglie le prime, disordinate prove discografiche degli scozzesi per l’etichetta Regal: in ordine cronologico, “Champion Versions”, “The Patty Patty Sound” e “Los Amigos del Beta Bandidos”, tre Ep rilasciati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro e contenenti ciascuno quattro brani.
I “Three” sono il monumento alla genialità sregolata e anarchica dei BB, che rifuggendo non di rado i dogmi della forma-canzone e del buon senso si dimostrano architetti di bizzarri edifici sonori nei quali non esistono soltanto stanze chiude da pareti, bensì open space nei quali suoni e generi si danno il cambio, si mescolano, duettano e incespicano tra loro con insospettabile naturalezza. Una sorta di flusso di coscienza ininterrotto, oppure un grande contenitore dal quale continua a uscire fuori di tutto: indie-rock, folk, elettronica, trip-hop, hip-hop, kraut-rock, funk…
Un tratto comune e distintivo di buona parte di questa produzione è forse quel modo di fare indolente che contraddistingue in particolare la prima parte della raccolta, quella afferente a “Champion Versions”, in qualche modo la più coesa tra le tre, e forse la migliore in assoluto. C’è qualcosa di magnetico nell’inerzia che culla l’ascoltatore e lo irretisce nel moto circolare dell’indie-folk “Dry The Rain”, in cui la voce di Mason disegna un mantra di raro magnetismo. Uno schema che la Beta Band replica con altrettanto successo nella elegante, quasi sontuosa “Dogs Got A Bone”. Quando il combo scozzese decide di staccarsi dalle regole della forma-canzone, escono brani come “I Know” e “B + A”, nei quali la reiterazione all’infinito di un medesimo pattern che flirta col trip-hop giustifica l’utilizzo (anche) di apparecchiatura elettronica.
Le cose vanno a complicarsi nel repertorio di “The Patty Patty Sound”, prodotto da Chris Allison. Dentro a “Inner Meet Me”, altro grande pezzo, le istanze precedentemente descritte vanno a sovrapporsi: linee vocali ipnotiche, chitarre acustiche, rintocchi elettronici confluiscono in uno dei migliori ritornelli mai scritti dai Beta Band. Che la faccenda stia prendendo pieghe alquanto bizzarre lo testimonia “The Monolith”, titolo più adatto alla forma (16 minuti!) che alla sostanza di un brano completamente sconclusionato: una sorta di jam session senza capo né coda, che si muove tra suoni ambient, ulteriori mantra vocali, sinistre sezioni strumentali, sparute parti ritmiche: un “monolitico” manifesto all’incompiutezza. D’altro canto, “The House Song” si spinge a lambire territori Madchester-iani e “She’s The One” dimostra una volta di più di cosa sono capaci i Beta Band quando decidono di scrivere canzoni più a fuoco, rispolverando quella vena indie-folk che in definitiva ne rappresenta la massima espressione.
Se “Los Amigos del Beta Bandidos” parte riallaccandosi al medesimo filone in una “Push It Out” che gioca le sue carte nel binomio chitarre-pianoforte, più l’aggiunta delle ormai consuete linee vocali magnetiche, è l’insolito rintocco di contrabbasso a contraddistinguere una “It’s Over” che assume le sembianze di una ballata folk spinta oltre i limiti convenzionali. In pratica, come se stessimo ascoltando un brano di Neil Young a velocità 2x. Il maggiore utilizzo dei tasti in questa terza e ultima parte di repertorio è confermata dall’obliqua traiettoria di “Dr. Baker”, con le sue pause e i suoi cambi di tempo dettati dal pianoforte, e dall’organo che tratteggia i bordi dell’ultima perla inserita in scaletta, “Needles In My Eyes”.
La storia dei The Beta Band va avanti ancora per una manciata di album e di anni, fino al 2004. Lusingati dagli apprezzamenti di una folta schiera di colleghi musicisti e da una piccola fanbase adorante, ma lontani anni luce da ogni parvenza di successo commerciale, gli scozzesi decidono di dismettere il progetto, eventualmente intraprendendo carriere solistiche di un certo rilievo. Ma “The Three E.P.s” resterà un disco unico e irripetibile, non solo per il gruppo, che non riuscirà a ripetersi su quei livelli, ma anche come pietra di paragone per chiunque tenterà, magari senza mai avere il coraggio di giungere fino alla pubblicazione, di scrivere un disco così alieno e alienante, folle e coraggioso, ispirato e perverso. Sacro e dissacrante nella sua sfacciata essenza una e trina.
https://www.ondarock.it/pietremiliari/thebetaband-thethreeeps.htm