Blur “Blur” (1997)

Blur “Blur” (1997)

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Blur
“Blur”, 1997 (Food)
Britpop, alt-rock

di Fabio Guastalla

Agosto 1995: i Blur sono all’apice del successo. Hanno appena vinto la cosiddetta Battle of Britpop con gli Oasis (anche se, come è noto, perderanno poi la guerra) e stanno festeggiando il primo posto in classifica raggiunto da “Country House”. Eppure il loro chitarrista, Graham Coxon, è sul punto di farla finita. Mentre la casa discografica ha organizzato una festa per celebrare il successo, lui sta per buttarsi da una finestra del sesto piano. A dissuaderlo dal compiere l’insano gesto è il cantante Damon Albarn, con cui è in rotta da tempo.
All’interno dei Blur, la leadership dell’ambizioso ed estremamente competitivo Albarn non era mai stata messa in discussione. Durante le session di “The Great Escape”, però, qualcosa si incrina, soprattutto nei rapporti con Coxon, che fino a quel momento era stato non solo il suo braccio destro, ma anche un perfetto contraltare ai suoi eccessi. Se Damon, che rappresenta il lato più artistoide e intellettuale della band (senza tuttavia mai rinunciare a una forte propensione per il pop più appiccicoso), è di solito quello che inizia un progetto e che propone più idee, Graham, l’anima indie dei Blur, è quello che lo porta a termine. Anche caratterialmente sono agli antipodi: tanto esuberante e sicuro di sé il primo, quanto schivo, timido e impacciato il secondo, praticamente la personificazione del chitarrista nerd con gli occhiali. Coxon soffre particolarmente l’attenzione mediatica, è disgustato dal fatto di essere diventato tutto ciò che non avrebbe mai voluto essere, ovvero una di quelle popstar i cui poster finiscono nelle camerette delle ragazzine. Ad Albarn invece non dispiace essere adulato dal pubblico e sembra molto più a suo agio nei panni del sex symbol, ma forse è tutta finzione. Conosciutisi ai tempi del college, i due raggiungeranno un livello di incomunicabilità tale che per un periodo riusciranno a parlarsi solo attraverso delle lettere. Non se la passano troppo bene neanche gli altri due membri dei Blur: il batterista Dave Rowntree è alle prese con una crisi matrimoniale, mentre il bassista Alex James ha spinto troppo oltre il limite la sua vita da incallito playboy, a suon di party a base di sesso e fiumi di cocaina.
Ci penserà il fido Stephen Street a riconciliare i quattro componenti, aiutandoli a ricucire i rapporti e a focalizzarsi sul nuovo album: un ruolo che l’abile produttore aveva già svolto una decina d’anni prima con un’altra grande band inglese, gli Smiths. L’impresa, come è evidente, non è comunque esente da difficoltà. Si tratta di rimettere insieme dei cocci che continuano a non volersi (più) incastrare.
Anche una scelta apparentemente innocua come il luogo in cui dare forma e registrare il nuovo repertorio diventa motivo di frattura. Albarn vuole cambiare aria, uscire dai confini nazionali, cercare nuova linfa altrove. Il luogo giusto l’ha già trovato: è l’Islanda, dove ha deciso di prendere casa. Comunque vada, per Damon l’importante è che il disco venga inciso a Reykjavík. Di tutt’altro avviso, manco a dirlo, è Coxon, il cui logorio è causato in buona parte proprio dal vivere costantemente in tour. Per Graham bisogna restare a Londra, una volta tanto, e anche James e Rowntree sembrano di questa idea. È Street a trovare il compromesso: le tracce vocali sono incise nella capitale islandese, mentre tutte le parti suonate vengono registrate tra il Maison Rouge e i Mayfair Studios di Primrose Hill, a due passi dalla nuova casa che Coxon ha acquistato dalle parti di Camden Town.
“Blur” nasce dunque da un compromesso fra Albarn e Coxon: nessuno dei due deve prevalere sull’altro. Ma è evidente che al chitarrista vengano fatte ampie concessioni, e che sia lui questa volta a pilotare il suono della band: innanzitutto, gli verrà permesso di incorporare nel caratteristico sound dei Blur massicce dosi di alternative rock a stelle e strisce. Lui, del resto, era stato chiaro: “Rispetto al passato ci devono essere meno strumenti a fiato e orchestre e più chitarre distorte”. Il risultato finale è infatti il disco che Graham Coxon aveva sempre sognato di registrare: libero finalmente di sbizzarrirsi tra distorsioni, feedback e rumori assortiti, in qualche modo l’ha avuta vinta. E così i nuovi Blur guardano ora all’America. Sembra una provocazione: un gruppo fino a quel momento così orgogliosamente britannico, portabandiera di una nuova estetica British e simbolo della Cool Britannia ancora prima che ne venisse coniato il termine, finisce per registrare un album dalle sonorità smaccatamente americane. Roba da non crederci. E davanti a chi lo accusa per il clamoroso voltafaccia, Damon Albarn si giustifica così: “Sono pieno di contraddizioni…”.
Ai tempi di “Modern Life Is Rubbish”, i Blur avevano creato una convincente risposta musicale al predominio del grunge (e della cultura statunitense); ironicamente, quattro anni più tardi realizzano una bizzarra parodia del genere, nota semplicemente come “Song 2”, destinata a diventare con il passare del tempo la loro canzone più famosa in assoluto, sospinta a grande forza anche da apparizioni a ripetizione in tv e alla radio, usata in spot pubblicitari e come main theme per videogame eccetera. Come spesso accade, “Song 2” è un brano che nasce per caso, nel cazzeggio delle session, mentre il gruppo sta aspettando che in sala arrivi della strumentazione per registrare altri brani.
Nell’altro pezzo punk del lotto, “Chinese Bombs”, i Blur alzano ulteriormente il volume, addentrandosi in territori quasi hardcore. I Pavement, la principale influenza dichiarata del disco, si sentono soprattutto in “Country Sad Ballad Man”, un brano sbilenco che fa un po’ il verso anche a Beck, in cui emerge l’indolenza tipica della generazione slacker. La sublimazione dell’estetica lo-fi si raggiunge nella malinconica “You’re So Great”, il massimo momento di gloria di Coxon, che la registra addirittura su una cassetta e si toglie lo sfizio di cantarla con la sua voce, sancendo di fatto l’inizio della sua futura carriera solista. Coxoniana è anche “Movin’ On”, un numero garage-blues che diventerà di lì a non molto quasi un personale marchio di fabbrica. Interessante anche l’esperimento compiuto su “M.O.R.”, che riprende il Bowie berlinese di “Boys Keep Swinging”, velocizzandolo con una progressione sonora degna dei Sonic Youth. Il britpop in una forma più classica ritorna in unico episodio, “Look Inside America”, che racconta il rapporto conflittuale dei Blur con gli States, iniziato con la disastrosa tournée del 1992 e poi proseguito con il cruccio per non essere mai davvero riusciti a sfondare negli Usa.
“Blur” si apre con il riff sghembo e ripetitivo di “Beetlebum”, un brano sui generis che nel ritornello svela reminiscenze beatlesiane; scelto come singolo di lancio, raggiungerà la vetta della classifica britannica. Ma è soprattutto il testo, ispirato dalla dipendenza dall’eroina del cantante e della sua compagna dell’epoca, Justine Frischmann delle Elastica, a rivelare un cambiamento di prospettiva in fase di scrittura. Stufatosi di descrivere ciò che gli accade intorno in modo caustico, Albarn inizia a scavare dentro di sé e ad aprirsi nei testi come mai aveva fatto prima, esplorando le sue debolezze. Un songwriting più personale e introspettivo prende dunque il posto delle vignette satiriche in stile “Parklife” che avevano fatto la fortuna della band. Se ne ha ulteriore conferma in “Strange News From Another Star”, ballata lunare caratterizzata da versi come “I don’t believe in me/ All I’ve ever done is tame” che mai ti saresti aspettato da uno che veniva spesso descritto come uno spaccone.
Il disco, incredibilmente variegato, prevede anche una lunga serie di episodi più oscuri e sperimentali che ne fanno un unicum non solo nella discografia dei Blur, peraltro restii da sempre a restare ancorati a un particolare sound, ma del britpop tutto. “Theme From Retro” echeggia spettrale e inattesa nel mezzo della scaletta, sospinta da un vecchio organo al quale si accoda la batteria e sul quale rimbomba in lontananza, quasi fuori campo, la voce di Albarn. Un brano folle, caotico, disorientante. Non lontana da questi esiti è anche “Essex Dogs”, un incubo post-rock nel quale la voce di Damon intona un monologo in prima persona e autobiografico: il verso “here comes that panic attack”, ad esempio, si riferisce agli attacchi di panico di cui ha effettivamente sofferto all’indomani del clamoroso successo di “Parklife”.
“Death Of A Party” ritorna alla forma-canzone, dotandosi anche di un ritornello tutt’altro che banale, ma prosegue nel solco di un tono minore nuovamente dettato dall’organo. Autoironicamente, i Blur intonano il funerale della scena britpop, dalla quale si sentono sempre più lontani, e al contempo degli anni Novanta intesi come epoca tout-court, con particolare riferimento nei testi all’Aids e alle paure e limitazioni che esso necessariamente comportava all’epoca. L’aspetto più curioso del brano, a posteriori, è però il suo andamento reggae-dub che emerge soltanto ascoltandone con attenzione la parte ritmica. È forse questo il contributo maggiore di Albarn nell’economia dell’album, anche perché l’esperienza dei Gorillaz non è così lontana all’orizzonte.
Due indizi fanno una prova, diceva qualcuno, e il secondo indizio è appunto “I’m Just A Killer For Your Love”, con il suo andamento ciondolante evidenziato dal wah-wah, il rumorismo a sprazzi, le atmosfere volutamente lo-fi, le voci sovrapposte in un effetto straniante. Albarn lo descrive come un pezzo in cui “Sly And The Family Stone incontrano i Black Sabbath”, anche se il titolo rimanda ai T. Rex di “Jeepster” (“I’m just a vampire for your love”).
Il terzo indizio, quello palese al punto da ricevere un’aperta confessione da parte di Damon che la citerà sostanzialmente come una delle prime canzoni dei Gorillaz, è “On Your Own”. Non solo per la commistione tra le chitarre di Coxon e una componente elettronica che diventa preponderante, ma anche e forse soprattutto per le metriche albarniane, che per la prima volta si tuffano senza pentimento in pieno ambito rap. È come ascoltare una “Girls & Boys” geneticamente modificata: l’immaginario è lo stesso, ma l’epoca e l’atmosfera in una manciata di anni sono cambiate, per sempre. Il pubblico, in ogni caso, apprezza: il singolo raggiunge la posizione n. 5 della Uk Chart.
Pubblicato nel febbraio del 1997, “Blur” debutta al primo posto in Gran Bretagna e al settimo in Italia. L’iconica copertina arancione, con l’immagine sfocata dell’infermiera che spinge a tutta rapidità un letto di ospedale sotto un tetto di luci al neon, sembra racchiudere in un unico scatto l’emergenza da cui è nato il repertorio e, quale inevitabile conseguenza, l’urgenza creativa che lo anima.
Crocevia fondamentale nel percorso artistico dei londinesi, rappresenta l’altra faccia della medaglia dei Blur, quella più sporca e rumorosa, e inaugura la seconda parte della loro carriera, all’insegna della sperimentazione e della ricerca. Ma soprattutto sintetizza, forse meglio di qualsiasi altro album, gli anni Novanta visti da una prospettiva indie rock: ci sono dentro quasi tutte le principali tendenze del decennio (rilette ovviamente in maniera personale), dagli ultimi rimasugli del britpop alla parodia del grunge, passando per il lo-fi, il trip-hop e persino il post-rock. C’è tutto il decennio appena trascorso, ma c’è anche una finestra che si apre sul futuro, soprattutto per quel che riguarda Damon Albarn, che da lì in poi muoverà le sue pedine letteralmente in ogni direzione, geografica e musicale.
Con la svolta alternativa, i Blur dimostrano soprattutto di essere una band allergica alle ripetizioni, capace di reinventarsi di continuo. E la loro metamorfosi non sarebbe finita qui: dopo aver posto fine al movimento baggy, inventato il britpop e sposato la causa dell’alternative rock, con i successivi album “13” e “Think Thank”, i Blur si sarebbero aperti a ulteriori sonorità, spaziando dall’elettronica alla world music. Perché in fondo, come affermano nella penultima traccia di “Blur”, “This is the music/ And we’re movin’ on”.

 

 

https://www.ondarock.it/pietremiliari/blur-blur.htm

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